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"L'éloge du corp" curated by Federica Fruttero, Seté-Palermo, International contemporary art festival. Seté, France.

La pittrice Linda Randazzo è un’espressionista contemporanea, grande osservatrice della realtà che la circonda e dei personaggi che popolano il suo quotidiano: i villaggi dei pescatori della costa palermitana e le famiglie sulla spiaggia. L’artista coglie dal vivo uomini e donne in pose e situazioni che rivelano tutta la loro umanità. Una volta nel suo studio, rielabora i soggetti utilizzando tecniche e supporti diversi: matita, inchiostro di china, acquerelli, olio. I personaggi di Randazzo appartengono a un mondo popolare spesso invisibile. Il suo è un lavoro antropologico che studia e restituisce gente semplice, mestieri umili, gesti e rituali imperituri. L’artista inquadra e trascrive movimenti ed espressioni come in fotografia, immortala i corpi nella luce assolata del Mediterraneo che cancella tutto ciò che sfiora, cattura e esalta un mondo in via di estinzione.
Federica Fruttero

Linda Randazzo

La carne e il sospiro

Cesare Biasini Selvaggi

 

 

Tema

«Ogni buona idea è stata già pensata: bisogna soltanto cercare di pensarla un’altra volta»(Johann Wolfgang Goethe). Se è vero, come dicevano i nostri antenati, che abbiamo bisogno di auctoritates, allora – per caso –  mentre pensavo a questo scritto ho trovato, nella replica della puntata di FuoriRoma[1](Rai 3) dedicata nel 2017 da Concita De Gregorio a Palermo, una citazione perfettamente calzante. Ecco le parole di Antonio Dimartino e Fabrizio Cammarata, cantautori del capoluogo siciliano: «In nessun posto come a Palermo la morte fa parte della vita, e ogni istante della vita celebra la morte». Proprio questa riflessione ha rafforzato la mia idea su quel senso siciliano, in particolare palermitano, della morte. D’altronde proprio a Palermo i morti non si celebrano. Si festeggiano. Il 2 di novembre arriva la Festa dei Morti: una Befana anticipata per i bambini siculi. L’ho appreso da un articolo di Francesco La Licata, pubblicato sulle colonne de “La Stampa”[2], dove a corollario della convinzione che il pensiero della morte sia presente nei siciliani e non ci sia proprio verso di esorcizzarlo, si cita Giovanni Falcone, che arrivava a praticare l’ironia e l’autoironia per tenerlo lontano: «Il pensiero della morte – disse alla scrittrice Marcelle Padovani – mi accompagna ovunque. Ma, come afferma Montaigne, diventa presto una seconda natura... si acquista anche una buona dose di fatalismo; in fondo si muore per tanti motivi, un incidente stradale, un aereo che esplode in volo, una overdose, il cancro e anche per nessuna ragione particolare».

Ecco uno dei tanti fil rouge che ingrossa l’intricata matassa dell’enigma Sicilia, da Giovanni Verga a Federico De Roberto, da Giuseppe Tomasi di Lampedusa a Vitaliano Brancati, ma anche fino a Lucio Piccolo, Bartolo Cattafi, Giuseppe Bonaviri: una Sicilia che celebra la sua ancestrale estenuazione di tramonto. E proprio le arti visive dell’isola, da quelle maggiormente risalenti a quelle più contemporanee, hanno rafforzato la mia convinzione sulla perfezione e sulla vitalità di questo sensus mortis: sulla sua immanente divinità.

 

Premessa #1

A Palermo c’è un grande, straordinario (nel senso etimologico del termine) affresco distaccato, conservato presso la Galleria Regionale della Sicilia/Palazzo Abatellis. Si fa comunemente risalire verso la metà del XV secolo. Non è certa, tuttavia, la committenza dell’opera in questione, non è certa neppure la nazionalità dell’autore (catalana?), figuriamoci il suo nome. Il cui surrogato è divenuto quello di “Maestro del Trionfo della Morte”.Nomen omen. D’altronde il titolo dell’affresco, nonché lapalissianamente il suo contenuto, sono appunto il Trionfo della Morte. Quest’ultima, infatti, domina la scena in sella a un cavallo ectoplasmico, infernale, che irrompe in un giardino, scagliando i suoi dardi letali su nobili fanciulle e giovani gaudenti. Mentre a terra c’è un tappeto umano intessuto dei cadaveri dei potenti del tempo: vescovi, un papa, un imperatore, un sultano, un uomo di legge. La Morte risparmia solo la folla di nullatenenti (a sinistra) che, invece, la invocano per ricevere finalmente sollievo dalle proprie sofferenze terrene. Mentre sulla destra c’è un drappello di dame e cavalieri, musici e poeti che, apparentemente disinteressati a quello che accade, perseverano nel godersi la vita e la bellezza. Un Memento mori in piena regola, molti commenteranno. Sì è vero, i leitmotiv di questo genere di allegoria medievale ci sono tutti. Proprio tutti. La transitorietà dell’esistenza, la caducità della vita, della vanità dei beni terreni e delle ambizioni umane, in contrapposizione alla vita eterna e all’esigenza della salvezza dell’anima. Ma perché non leggerci anche un invito a godere dei piaceri della vita e ad approfittare di ciò che offre il mondo, vista appunto la precarietà del tutto? Insomma, una traduzione iconografica dell’oraziano Carpe diem? Quest’ultima interpretazione certamente non fu contemplata da Pablo Picasso che, stando a quanto riferito da Renato Guttuso, si sarebbe ispirato – attraverso una sua riproduzione fotografica – al Trionfo della Mortedi Palazzo Abatellis per la sua Guernica. Ma non è da escludere, invece, che quest’ultima interpretazione informi la ricerca degli artisti siculi, soprattutto di quelli a noi più prossimi, e le loro vibrate, funeree e insieme colme di splendore atmosfere, dove si coagulano vita e morte, bellezza e vecchiaia, agi e povertà, amarezza e rassegnazione, la cura, la compassione, l’amore, la speranza, la resilienza. Da quegli artisti, per esempio, del cosiddetto Gruppo di Scicli (Sonia Alvarez, Sandro Bracchitta, Carmelo Candiano, Ugo Caruso, Giuseppe Colombo, Piero Guccione, Giovanni La Cognata, Franco Polizzi, Giuseppe Puglisi, Franco Sarnari, Pietro Zuccaro), a figure “in solitaria” come Giovanni Iudice, fino ai protagonisti dellaScuola di Palermo (Alessandro Bazan, Francesco De Grandi, Andrea Di Marco e Fulvio Di Piazza) e alle sue ultime generazioni, come Linda Randazzo (si pensi alla sua versione del Trionfo della Morte, 2018). E, allora, devo cominciare da capo.

 

Premessa #2

Il mio “viaggio siciliano” dell’estate 2018 mi ha portato lontano dagli echi, peraltro ben presto sopiti, di Manifesta 12, dritto nel ventre caldo della Vucciria palermitana. Esattamente a piazza Garraffello, dove s’incontravano le logge di tutti i mercanti provenienti dal Mediterraneo e oltre, a pochi metri dalla Cala, il vecchio porto, quando Palermo era florida e la Vucciria era il cuore dell’economia e della vita sociale della città. Dalla piazza, in un andito quasi nascosto alla vista, si dipana vicolo della Morte. Un tempo luogo di degrado e discarica di rifiuti, poi divenuto atelier a cielo aperto per artisti chiamati a raccolta a ripulirlo e a convertirlo in una galleria di strada. Un catalizzatore di energie (già dense nell’aria in un quartiere ad alta “complessità sociale” e, ormai, a rischio imminente di gentrificazione) alimentato dall’arte. Uno spazio di aggregazione. Tra i fondatori del manipolo di questi “Artisti del vicolo della Morte”, figurano Antonino Gaeta e Linda Randazzo, per i quali, non a caso, «la morte è intesa come rinascita, in una sorta di cerchio della vita». Della vita, lo sappiamo, fa parte un po’ tutto, in una stratificazione continua e fluida che ricorda, nel capoluogo siciliano, la morfologia di dolci tipici locali, come la cassata siciliana o la torta “sette veli”. In un continuo alternarsi, cioè, di strati, ora di luci e ombre, ora di bene e male, ora di detti e non detti. Proprio questi ultimi qui sono insidiosi, difficili da decifrare e richiedono interpreti ad hoc. È il caso del recente sfregio, in piazza Garraffello, del volto della “Santa Morte” (omaggio, in questo caso, anche alla cultura messicana), opera realizzata dall’artista Igor Scalisi Palminteri su una porta di legno alta tre metri, per coprire la zona del crollo dell’antica loggia dei Catalani. Uno sfregio compiuto con una bomboletta spray color nero. Forse più di un mero atto teppistico. È quanto trapela dalle parole di Linda Randazzo: «La comunità è libera di reagire come crede all’arte, che è un importante veicolo di messaggi anche scomodi. Ma è anche un chiaro segno che noi artisti non siamo più i benvenuti». Eppure gli artisti qui a Palermo, nonostante tutto, perseverano. Come fa lo stesso Igor Scalisi Palminteri che, insieme ad altri quattro amici artisti (Alessandro Bazan, Andrea Buglisi, Angelo Crazyone e Fulvio Di Piazza), ha realizzato un progetto per riqualificare Ballarò e l’Albergheria con cinque grandi dipinti. Come fa Linda Randazzo, “sfrattata” dal mutamente delle circostanze o degli equilibri “ambientali” dal suo studiodi Palazzo Rammacca, in piazza Garraffello.Ancora una volta storie di vita e di morte, di distruzione e resurrezione, di legalità e criminalità, di eroi dell’antimafia e professionisti dell’antimafia, di sciasciana memoria.

 

Linda Randazzo. Palermo 01. 01. 1979

L’ho incontrata per la prima volta un paio di mesi fa eppure, strano a dirsi, sembra che Linda Randazzo la conosca da sempre. Mi accoglie in quello che, di lì a poco, sarebbe divenuto il suo ex studio.Mi anticipa spalancando il portale malconcio di Palazzo Rammacca e mi conduce su, attraversando un dedalo di scale e scalette che sembrano uscite da un film di Harry Potter. Fino all’ingresso di un appartamento che era stato l’atelier di Alessandro Bazan, uno dei suoi maestri. Nel palazzo hanno vissuto nel tempo molti artisti contemporanei siciliani e stranieri, oltre a essere stato per oltre dieci anni sede di Francesco Pantaleone arte contemporanea, galleria fondata nel 2003con lo scopo di valorizzare artisti siciliani e fornire una piattaforma a Palermo per artisti già radicati al livello internazionale. Resto subito colpito dall’ampiezza dei locali dello studio, incastonati l’uno dentro l’altro come in una matrioska. C’è solo l’ombra di quelli che dovevano essere stati tempi decisamente migliori. L’intonaco alle pareti è sbiadito quanto decrepito, aggrinzito inesorabilmente, fino a polverizzarsi in veli di polvere che coprono i pochi mobili superstiti. Una serie di divani sfondati sembrano supplicare di poter finire finalmente i loro giorni da sedute per andare a ingrassare qualche discaricare. Eppure l’atmosfera è tutt’altro che squallida, apatica. Ci pensano le tele, piccole, medie, grandi che spuntano un po’ dovunque. Tracce indelebili di un percorso di ricerca già al giro di diverse boe. Molti i ritratti che mi scrutano implacabilmente, la cui pennellata, densa e polimorfa, entra a far parte di un processo convulsivo, carico di ansia e rabbia, che lascia dietro di sé la traccia indelebile dell’incertezza e della conflittualità dell’autrice. I debiti pittorici non sono solo autoctoni – Bazan in testa – ma anche tra quelli più significativi del panorama internazionale, da Marlene Dumas a Francis Alÿs, da Elizabeth Peyton a Wilhelm Sasnal, da Alex Katz a David Hockney, da David Salle a Francesco Clemente. E, poi, ancora ecco assieparsi, appese come capita, scene di vita quotidiana descritta su spiagge assolate, con un campionario di varia umanità, in testa quella “bagnante”. Che sembra presa in prestito da quella scrutata da anni nella borgata marinara di Partanna Mondello, dove Linda Randazzo abita e, da poco, ha trasferito lo studio in un garage. Uomini e donne, ora giovani, ora di mezz’età avanzata, vagliati dall’artista in una teatralizzazione del presente attraverso una minuziosa, sia pur sintetica, descrizione del loro modo di vestire, di pettinarsi, di atteggiarsi in una ricorrente pinguedine. Perché– per utilizzare le parole stesse dell’autrice –«nel capoluogo siculo la metafisica ha l’odore acre della carne arrostita nei mercati del centro storico»[3] oppure di quella bruciata dal sole dei bagnanti stesi su lettini da mare e teli da spiaggia, aggiungo io. Tutte incoerenze estetiche congenite nel carattere di un’artista contemporaneo del luogo. Che, come Linda Randazzo, dipinge pertanto soggetti naturali dalla banalità quotidiana, ma solo in apparenza. Spesso, infatti, dietro queste figure si nasconde il mito (come quello di santa Rosalia, nume tutelare della città, nel dipinto Lia del 2018). Dietro queste figure insomma, in un interno spesso, c’è un significato nascosto nell’apparente innocua presenza della natura, della cosiddetta “vita normale”. Restituito su tele o carte ottenute con l’antico trucco di chi sa bene che la radice di “arte” è “artificio”, e che il compito sublime dell’artista odierno sia quello di comunicare la sua intima fede come dogma. E la fede dell’autrice si riscopre oggi solo estetica e, in questo, tradisce il suo limite immanentista che informa, giorno dopo giorno, la sua inquietudine ancora lungi dall’essere accettata, tollerata.

 

Mostra

Per la scelta del titolo di questa personale mi è venuta subito in soccorso una poesia dell’indimenticabile Alda Merini, “La carne e il sospiro”, appunto. E, più ancora, mi ha spinto a questo “prestito letterario” un passaggio della poesia: “…Prima della poesia viene la pace, un lago sempiterno e pieno sopra il quale non passa nulla, neanche un veliero; prima della poesia viene la morte, qualche cosa che balza e rimbalza sopra le acque…”. Sopra le acque… sì, nel nostro caso ora di una serie di lavori (cinque dipinti su tela, due acquerelli e tre matite su carta), metà dei quali eseguiti quest’anno. Dove sì, è proprio vero, prima della poesia viene la morte. E il primo indizio che mi conduce a questa deduzione è proprio contenuto nei lavori su carta. Disegni e acquerelli, mai troppo tecnici o accademici (d’altronde come i dipinti), in cui i dettagli di un luogo o di una persona, per esempio, diventano spunto per evocarlo senza rappresentarlo compiutamente. Entrare troppo nello specifico, infatti, non avrebbe permesso di cogliere quella zona liminare, quella sorta di limbo terrestre, in cui vivono – o si illudono di vivere –i modelli inconsapevoli che lo abitano. Una sorta di trasposizione pittorica di “The Others”, il film del 2001 diretto da Alejandro Amenábar e magistralmente interpretato da Nicole Kidman. La semplicità della scena, in Love story (acquerello su carta, 2016), Signora (acquerello su carta, 2016), Bagnanti, Bambino oppure inLa pasta al forno (matite su carta, 2018), è minata da questa inquietudine metafisico-esistenziale dell’artista, che risulta evidente a uno sguardo attento. Ottenuta attraverso un caleidoscopio di escamotage tecnici: la definizione dello spazio attraverso l’esasperazione della prospettiva diagonale e un vasto tratto di cielo aperto, con tale apertura che contrasta con i personaggi, spesso relegati, in alcuni casi addirittura claustrofobicamente stipati, in un andito ristretto del foglio di carta. Foglio lambito da un diabolico uso dello sfumato, del non-finito, in un elogio al favor vacui che innesca nello spettatore la sensazione di guardare la rappresentazione di un ricordo, la sintesi di un déjà vu, di una vita che forse è già stata e che non tornerà più. Linda Randazzo improvvisa ed esplora sulla carta prima di dipingere, e i suoi numerosi taccuini, fogli d’album, tradiscono sempre una soluzione in fieri alla trattazione della composizione. Che, nelle carte come nei dipinti, cattura un momento rubato nella vita di uno o più sconosciuti, in un’atmosfera conviviale che riesce tuttavia a irradiare tutt’intorno, non solo inquietudine, ma anche solitudine. Quella che connota l’esistenza di ognuno dalla nascita all’epilogo dal finale aperto. Ancora aperto. Eppure c’è ancora dell’altro a scandagliare i lavori esposti. Persino una dimensione erotica, che si manifesta in una sorta di retropensiero oltre la volontà stessa dell’artista e che emerge, alquanto evidente, tra bermuda, bikini e i costumi interi (si pensi alle tele Giuditta del 2017, Ciambella e Lia del 2018), nel mistero che aleggia intorno al privato di questi giunonici antieroi. Un modo sperimentale per rendere l’assenza di tempo, l’aspetto “fantasmico”, per chi riesce a vederlo nel cuore della realtà visiva, nella carne e il sospiro.

 

 

 

                                                                                                                                   →Roma, 21.08.2018

 

 

 

 

 

[1]raiplay.it/video/2017/09/FuoriRoma

[2] F. La Licata, Quel senso siciliano della morte, in «La Stampa», 6 luglio 2011

 

[3]L. Riggio, Linda Randazzo: Vi racconto la mia arte, e la mia Palermo nobile e decaduta, in«VNY-La Voce di New York»,30 marzo 2018

2016 People,

 

a cura di Stefania Galegati Shines,

Caffè Internazionale, Palermo, 2016.

"Ho sempre visto Linda lavorare da lontano in questa città, dove mi sono avvicinata al mondo

dell'arte con molta cautela. Linda è una pittrice seria, forse una delle migliori studentesse della

scuola palermitana di Bazan. Eppure fatica a lavorare. Linda è passionale, ti dice sempre quello

che pensa e a volte non pensa troppo prima di dirti tutto. Lo stesso succede quando dipinge. Ora

risiede a Mondello. Il suo accesso quotidiano alla spiaggia è uno studio scientifico pittorico, di

luce e forme che si muovono. Di onde e masse di grasso. Di risorse umane proprio nel momento

in cui queste si lasciano andare, si rilassano, si svestono e spengono il funzionamento lavorativo

del cervello. Ritmo folle di vuoti e pieni che riappare nei suoi disegni / acquerelli e tele. "

Stefania Galegati Shines

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Linda Randazzo, Parentesi,

 

a cura di Stefania Cordone, Putia Sicilian Creativity, Castelbuono. 2016


Si comincia con Linda Randazzo, artista palermitana, dalla creatività esplosiva, dal carattere esuberante, pittrice innamorata della pittura, visceralmente legata alla Sicilia. Di questa terra l’artista vive e rappresenta le contraddizioni, per le quali ogni cosa assume una doppia valenza. Il sole riscalda e soffoca, così come la luce illumina e abbaglia. Ma ciò che in altri resterebbero delle contraddizioni in Linda, attraverso la pittura, trovano una via di conciliazione trasformandosi in energia vitale.
Ritrattista, amante di tutta la storia del ritratto, pur ammirando il rigore classico della pittura italiana si dichiara espressionista a livello gestuale. I suoi personaggi non necessitano di troppi dettagli per raccontarsi. Lo fanno attraverso la profondità dello sguardo che l’artista cattura e ripropone con pennellate dense e spesse, quando si tratta di pittura ad olio, o leggere e sinuose, quando adopera l’acquerello. Questi due modi di dipingere, apparentemente opposti, rispecchiano la complessità della’artista, energica e fragile, tenera e ribelle, innamorata e arrabbiata. Sempre comunque vitale.

La “Parentesi” che su di lei PUTIA art gallery apre è costituita da acquerelli, oli e disegni che raffigurano scene quotidiane, soggetti “semplici”,  con una visione impersonale, in cui l’io pittorico si fonde con il soggetto rappresentato, nella consapevolezza di essere parte di un tutto.

 

Stefania Cordone 

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Paradiso Perduto,

 

a cura di Tiziana Pantaleo

Incontri in Arte Palermo. 2016

IL PARADISO PERDUTO “Adamo ed Eva si volsero allora indietro, e videro il fianco orientale del Paradiso, un tempo felice albergo ora perduto. Lacrime naturali scivolarono dai loro occhi, ma le asciugarono subito; il mondo stava davanti a loro, e guidati dalla Provvidenza scelsero il luogo in cui fermarsi: la mano nella mano, per la pianura dell’Eden a passi lenti e incerti presero il loro cammino solitario”.1 “Voglio vivere dove il grande Dio Sole dispensa per me i suoi sguardi migliori, dove il grande Dio Sole smentisce le mie malinconie con la forza del suo calore, dove la luce accecante trasfigura le tristi realtà del mio cuore”.2 Linda Randazzo è un uragano, è imprevedibile e spiazzante, è una caldissima giornata di sole, ma è anche un mare in tempesta; la sua pittura è travolgente, coinvolgente, a volte direttissima, a volte astrusa, capace di innalzarsi nelle sue mille contraddizioni. Temeraria e coraggiosa, Linda è testimone di un linguaggio che agli occhi di molti forse potrebbe risultare obsoleto o anacronistico, e se qualcuno si chiedesse quale sia oggi -‐ nel pieno della contemporaneità -‐ il senso del fare pittura, ancor più quando prevalentemente figurativa, come nel suo caso, risponderò usando le parole dell’autrice, poiché penso che sia lei la persona che riesce meglio a parlare del proprio lavoro e ne sia lei -‐ probabilmente -‐ la più grande teorizzatrice: “…la mia pittura è legata alla sensazione o alla percezione della realtà, e nell’ eventualità del raggiungimento di una verità esistenziale, penso che sia una cosa assolutamente attuale per gli esseri umani, e che sia il motivo fondamentale per un certo tipo di ricerca pittorica; E’ il discernimento di ciò che è la realtà rispetto alla rappresentazione. Dipingere la realtà è come essere nel pieno dell’atto di un evento, che è la rivelazione dell’esistenza delle cose…” 

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Linda's Space

curated by Gianni Gebbia

Teatro Garibaldi alla Kalsa, Palermo 2015. 

Dietro la personalità apparentemente ''maledetta'" o caotica di molti artisti si nasconde spesso un metodo ben preciso con risvolti rigeneranti e seri. In questi ritratti di Linda c'è un lungo e preciso lavoro su persone reali di tutti i generi ed estrazione sociale ed è come se questa lunga, quasi ossessiva , serie di volti a lungo andare ci svelasse qualcosa d'altro che la semplice storia psicologica del soggetto e ci svelasse uno spazio altro che, normalmente, non percepiamo sotto la costante pressione del nostro Ego.

Questo "qualcosa" è al di là della storia individuale e del suo teatro psicologico, è qualcosa di originario e senza nome come quell' uomo, evocato dal patriarca zen cinese Rinzai, che entra ed esce continuamente da questo corpo, un essere " senza rango o definizione" che e' il nostro vero Sé, la nostra vera natura. Su un livello strettamente pittorico potremmo citare tanti maestri ed influenze da El Greco fino a Kokoshka, Soutine fino ai contemporanei ma questo non ci interessa più di tanto. Nel curare questa mostra abbiamo

invece deciso di esaltare, accanto all'approccio " pacifico e poetico degli acquarelli , questo sguardo dei ritratti come in un panopticon o una sala degli antenati delle dimore nobiliari oppure i lunghi e freddi corridoi dei conventi pieni di anonimi ritratti degli abati...

Benvenuti !

Nessuno di Veramente Importante

a cura di Helga Marsala

Zelle Arte Contemporanea Palermo 2010

La ricerca di Linda Randazzo ruota attorno a problematiche complesse, facendosi strumento di indagine teorica e insieme pratica artistica intrinsecamente fisica. La pittura – rigorosamente dal vero - vive come gesto performativo e indagativo, che nel corpo dell’artista e nella relazione con gli individui ritratti trova il senso del suo accadimento. Tra concretezza del gesto e levità dell’idea, tra pensiero e azione pittorica, tra mimesis e astrazione, il limite si assottiglia, fino quasi a rovesciarsi in una coincidenza potenziale. Pittrice e disegnatrice del reale, collezionista infaticabile di frammenti del quotidiano, di pose, di espressioni, di paesaggi, di facce, di nature morte, l’artista ha radunato una folla di volti, tutti conosciuti e in molti casi amati, empaticamente vissuti in quanto piccoli universi da percorrere, esplorare, decostruire e ricomporre. Nessuno di veramente importante. Tutti, in qualche modo, essenziali. Decine e decine di ritratti - oli su tela o disegni a penna e grafite su carta -, decine di facce amiche da srotolare davanti agli occhi, da apparecchiare dinanzi a sé per poi mettersi a scrutare, accostandosi, allungandosi, spingendosi in là con le dita e le pupille, prolungandosi verso fuori e in avanti, arrischiando un tuffo che conduca fin dentro la carne.

Helga Marsala

The search for Linda Randazzo revolves around complex issues. Her seeking out for theory, with an artistic practice physically intrinsic, is the tool of her work. 
 Her paintings, rigorously made from live, exist as a performative and investigative action. This action is found at the time of the happening in the painter’s body in relation with the person that model for her. Between the concrete action and the rising of the idea, the thoughts and the pictorial action, the mimesis and the abstraction, limits shrink to a potential coincidence. 
The artist, in her work, never stops collecting daily fragments of everyday life that she sees around or recreates in her studio; people’s poses, face expressions, still life, and so on. Linda has accumulated a crowd of known and sometimes loved faces each of them empathically lived as little universe. Nobody is really important but all of them somehow essential. 
Dozens of portraits, oil on canvas or ink and graphite on paper, friends’ faces unfold in front of the eye, waiting to be explored, attracting the viewer from outside and then forward to the inside of the flesh. 
 Helga Marsala

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