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I miei autoritratti: in cerca dell’anima.

Conversazione con Linda Randazzo – di Gianna Panicola

 

 

Palermo sabato 14 maggio 2022, ore 14:30 – Area Piazza Rivoluzione 

Mentre aspetto Linda, sorseggio un caffè e osservo Piazza Rivoluzione vuota e battuta dal sole. 

Dopo la mostra personale dal titolo “CHARTÆ”, a cura di Mariateresa Zagone, nei locali della Mondadori Bookstore di Messina, Linda Randazzo, è protagonista insieme ad altri quattordici artisti di “Queste non sono pipe. Autoritratti contemporanei”. La mostra collettiva, a cura di Salvo Ferlito, alla galleria Almareni di Marco Cocciola, si è conclusa lo scorso 28 maggio 2022. È proprio l’autoritratto ad essere il nostro luogo di incontro, di confronto e di approfondimento. Linda arriva e ha inizio la nostra conversazione sotto l’ombrellone. E’ un fiume in piena, travolgente ed impetuoso. 

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GIANNA PANICOLA: L’autoritratto come estensione della rappresentazione di sé in relazione al proprio contesto. Il tuo è un’estensione di per sé, abbraccia una ricchezza di particolari, di psicologie. È simultaneità di segni concomitanti, di simboli, come la rosa, ad esempio, che troviamo presente nell’iconografia mistica cristiana ma che qui riveste un altro significato. 

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LINDA RANDAZZO: Il simbolo che tu hai notato e che rimanda alla religione, agli attributi dei santi, delle icone sacre, è presente nel mio autoritratto, ma la mia è una religiosità laica, c'è una sacralità laica. La rosa, ad esempio, è uno dei tanti simboli dell'ermetismo, anche se la ritroviamo molto nell’iconografia cristiana.  Santa Rosalia, la Santa Protettrice di Palermo, aveva una corona di rose, che in realtà deriva dal paganesimo romano, dove esistevano delle feste che si chiamavano le Rosalie e in cui si portavano delle corone di rose nei cimiteri. Essendo una commemorazione dei defunti, la "rosatio" era una pratica sviluppatasi dall'uso di porre dei fiori nei siti di sepoltura. La rosa rossa come simbolo anche esso di rinascita, di sangue e di vita. Il mio, dunque, non è stato un rimando alla religione cristiana, ma a dei simboli pagani. 

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G. P. Ti vediamo rappresentata in compagnia del tuo cane Frida e dei tuoi gatti. I felini sono tra i soggetti preferiti da moltissimi artisti e costituiscono una presenza simbolica preminente nelle opere di alcuni. Come ad esempio, in Leonor Fini che amava circondarsi di gatti, ne troviamo numerosi anche nei suoi quadri e rimandano al suo istinto voluttuoso ma anche al sovrannaturale. Il tuo gatto sospeso sembra appartenere ad un’altra dimensione, quella trascendente. Lo spirito che vive nello sguardo del felino.

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L. R. Per la tradizione occidentale, i gatti sono animali esoterici, ce lo insegnano gli Egizi; in realtà, i miei gatti e soprattutto questo “sospeso” che si chiama Martino, è proprio quello che fra tutti ha uno sguardo verso l'aldilà. Gli altri, disposti come a protezione della mia figura, non sono solo estensione di me, ma significano anche protezione affettiva. Ognuno di loro, è stato ritratto realisticamente in senso espressivo, cioè ogni gatto rappresenta per me la propria caratteristica psicologica, sono dei veri e propri ritratti. Il mio è un autoritratto a metà tra realismo e simbolismo. Pensavo a quando Frida Kahlo diceva: “Io non sono una pittrice surrealista, io dipingo la mia realtà”. In qualche modo, anch'io ho dipinto la mia realtà, utilizzando degli elementi simbolici che non sono decorativi ma rappresentativi di quello che volevo dire. Il gatto che sta nella parte superiore del dipinto, la parte del cielo, rappresenta la metafisica e la luce. È un gatto che guarda oltre la dimensione spaziale del quadro, quell'aldilà che a noi è sconosciuto. Come simbolo anche lui del mistero, ci riporta a un fuori campo che noi non conosciamo, il mistero. Quello è il mio gatto! 

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G. P. Hai scritto che “l’opera è una morte visibile, è una messa in scena della tragedia di essere mortali. Vita breve, arte eterna”. Nel tuo autoritratto, vita e morte convivono attraverso alcuni simboli particolari, come ad esempio il teschio: una Santa Muerte. Si nutre di colori, di foglie di fico, della presenza di amici gatti. Si posa una farfalla, la morte sorride e suscita smorfie. Un simbolo di cambiamento, di evoluzione?

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L. R. Si, non è una morte definitiva, è una morte attraverso la quale si cerca la vita. Nel mio autoritratto, il teschio non è il tipico teschio della Vanitas che si usa nella nostra cultura. È un pezzo che viene da una collezione di maschere del Sud America, una maschera di legno, credo del 1910, proveniente dal Messico, una Santa Muerte. È un idolo per i messicani, ognuno possiede la sua, nessun'altra persona deve toccarla e non si deve rompere. Io l'ho utilizzata come si usa nella nostra cultura, però con un particolare del tutto arbitrario: da questo teschio faccio uscire una falena. Una farfalla, simbolo dell'anima che esce dall'oscurità per cercare la luce, infatti, è dipinta dal basso verso l'alto. La parte superiore del mio quadro, è un cielo dorato. Ho utilizzato un simbolo tipico dell'arte bizantina o comunque dell'arte medievale, simbolo della luce, della trascendenza divina. Oltre a questo, è presente quello della foglia di fico che rappresenta la ciclicità; ciò che sembra un elemento assolutamente decorativo, in realtà, ha una sua valenza profonda. 

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G.P. In questo autoritratto ti sei rappresentata con la caratteristica posa malinconica con accanto il tuo cane Frida, fiera e sicura. In altri, invece, mentre abbandoni il tuo corpo a spasmi isterici, mentre ascolti il suono di una conchiglia: accarezzare la pittura, avvicinarla al viso, ascoltarla. Riuscire a cogliere quello che è capace di donare. 

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L. R. Mi sono rappresentata con questa posa della malinconia, tipica della melancolia di Durer, un cliché che viene associato all'artista, al suo umore saturnino, anche se in questo quadro non ci sono degli elementi che si riferiscono propriamente al mestiere di essere artista. Molti autoritratti di artisti sono accompagnati dal pennello, dalla tavolozza… nella storia dell'arte ce ne sono tantissimi. Il curatore della mostra “Queste non sono Pipe”, ne ha capito perfettamente il senso e ha parlato appunto di questa influenza "saturnina". C'è questa contrapposizione tra la Saturnina malinconica, con questa bile nera dell'artista (che sono io) e il cane accanto a me. La mia Frida è una figura fiera, una figura fedele, è il mio cane, un essere che fa parte di me. È anche un simbolo di fedeltà in assoluto. 

Per quanto riguarda il problema della rappresentazione, anche se io faccio pittura figurativa, la rappresentazione è sempre soggettiva. Non si arriva mai alla rappresentazione della cosa in sé, anche perché la cosa in sé non esiste se non è vista dall'altro. Io ho bisogno di essere vista, così come la pittura per esistere ha bisogno di essere vista. Se io non mi rappresentassi e non mi facessi vedere, non potrei esistere. La rappresentazione esiste solo se c'è un soggetto e qualcuno che osserva: un fruitore. Io non so chi sono, non so mai chi sono nel ritratto, mi cerco. 

La persona che mi conosce meno sono io. 

Ho dipinto tanti autoritratti, gioco un po' alla maschera di me stessa, nel senso che mi sono ritratta come isterica o mentre ascolto il suono di una conchiglia. Ho utilizzato alcuni cliché della rappresentazione del corpo femminile, come ad esempio quello con l'attributo della conchiglia, che era un attributo con cui venivano rappresentate le bambine nell'epoca vittoriana, nella pittura inglese vittoriana intendo. L’eco del mare, il suono del mare, questo rimando all'anima nella mia autorappresentazione c'è sempre: un rimando all'essere anima.

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Autoritratto su cielo dorato con il cane Frida, i gatti Kitty, Miu', Martino e la Santa Muerte, 100 cm x 120 cm olio su tela, 2021.

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Autoritratto da Isterica, 100 cm x 120 cm, olio su tela 2018.

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Autoritratto come suono del mare, 90 cm x 100 cm, olio su tela, 2013, collezione privata. 

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